Siamo bravi a giudicare gli altri?

Anna TontiSenior Consultant, Trainer, Coach

Malcom Gladwell nel suo saggio “Il dilemma dello sconosciuto” dà subito nelle primissime pagine una risposta lapidaria: no. Le considerazioni con cui costruisce questo “no” sono importanti per tutti coloro che si trovano in azienda a dover valutare le persone sia che le incontrino per la prima volta o quelle con cui ci siano delle relazioni professionali anche di lunga durata. Essere consapevoli dei meccanismi che regolano la nostra capacità di giudicare l’altro ci può aiutare a essere più accorti nel futuro e, soprattutto, a fidarci un po’ meno delle nostre valutazioni.

Siamo tutti persone di esperienza, abbiamo costruito nel tempo solide relazioni professionali e sociali basandoci sul nostro intuito, la nostra capacità di osservazione, la nostra esperienza ci ha portato a valutare le persone che via via abbiamo incontrato nella nostra vita e, per diana, lo abbiamo fatto in modo più che egregio. Però, pensandoci bene, qualche cantonata la abbiamo presa tutti. Candidati che si sono rivelati diversi da come li avevamo percepiti durante i colloqui, dubbi a cui non abbiamo dato ascolto, piccole o grande bugie che non abbiamo neppure sospettato sul momento e che abbiamo scoperto dopo, qualche volta molto tempo dopo. Insomma, come mai la nostra capacità di giudizio ha fatto cilecca?

Cosa offusca il giudizio

Una piccola consolazione è che siamo in buona compagnia: importanti funzionari dell’intelligence, giudici, poliziotti e perfino statisti del calibro di Chamberlain hanno fatto degli errori grossolani in questo campo. Stiamo parlando di categorie professionali che ci immaginiamo particolarmente attrezzate per capire a una primissima occhiata chi hanno davanti e quanto è affidabile.

Gladwell ci porta a scoprire che  sono invece esposti anche loro, come noi, a delle trappole. Nel libro individua alcuni “vizi” alla base di giudizio; tra questi la presunzione di onestà e la trasparenza sono i due più significativi per chi opera in ambito organizzativo.

Presunzione di onestà

Magari abbiamo un dubbio su qualcosa che una persona ha detto o ha fatto, ma tendenzialmente tendiamo a mettere a tacere la perplessità e a fidarci. Il processo evolutivo ha premiato la tendenza a dare fiducia al nostro prossimo, è la fiducia automatica ad essere alla base delle nostre transazioni sociali. Fidarsi, presumere l’onestà dell’interlocutore, ha dei vantaggi innegabili facendoci risparmiare tempo ed energia. Provate a immaginarvi cosa succederebbe se dovessimo soppesare le parole ed i comportamenti di chi ci circonda in ogni singola occasione. La fiducia permette un'atmosfera moderatamente serena nei gruppi e nelle aziende: nei team dove qualcuno non si fida degli altri il clima degenera rapidamente e la qualità del lavoro comune e dei singoli ne risente in modo palpabile.

Trasparenza

Gladwell definisce la trasparenza come “l’idea che il comportamento e l’aspetto delle persone, il modo in cui si presentano esteriormente, offrano un’immagine autentica e affidabile di ciò che sentono interiormente.”  È la modalità che utilizziamo quando dobbiamo farci una prima idea (qualche volta anche una seconda o una terza!) di chi abbiamo di fronte. Sono tanti gli studiosi che ci hanno dato indicazioni precise per poterlo fare in modo efficace da Darwin* a Paul Ekman.

In teoria funziona tutto perfettamente ma la pratica ingarbuglia le cose. Non è detto che l’interlocutore metta in atto un comportamento riconoscibile e/o coerente con quello che ci aspetteremmo nella situazione specifica. I comportamenti dettati dalle emozioni non sono proprio così universali e palesi (questo è vero nelle serie televisive dove all’emozione sorpresa del protagonista corrispondono gli occhi spalancati, la bocca semi aperta, etc) ma dipendono in larga misura dalla persona e dal contesto culturale in cui si è formata. La storia della giurisprudenza è piena di persone giudicate colpevoli di un reato, che non avevano commesso, perché il loro comportamento è stato scambiato per l’espressione di un’emozione diversa da quella che ci aspetta da un’innocente. Queste incomprensioni non si limitano solo alle aule di tribunale, sono frequenti anche nella vita reale.

E allora?

Da un lato dobbiamo essere consapevoli degli ostacoli di pensiero, ben sapendo che nella maggior parte dei casi la presunzione di innocenza e la trasparenza sono comportamenti premianti, dall’altra dobbiamo imparare a farci qualche domanda in più soprattutto in quelle situazioni dove il rischio della troppa fiducia, e la conseguente presunzione di onestà, può avere delle conseguenze rilevanti.

Per scoprire di più sul tema, consulta il programma del corso Cegos Unconscious Bias

Scritto da

Anna Tonti

Anna è formatore, consulente organizzativo e coach PCC ICF. Dopo la laurea ha lavorato nella direzione Risorse Umane di aziende multinazionali e dal 1998 si occupa di consulenza e formazione. Appassionata di Intelligenza Emotiva e attenta ai fenomeni nuovi a livello sociale e organizzativo, ricerca nella sua attività di coach e formazione il coinvolgimento attivo delle persone. È anche specializzata in temi di leadership, gestione dei conflitti, relazioni difficili, learning agility e problem solving creativo.
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